Oggi, 1 aprile (!), è apparsa su OrizzonteScuola.it una lettera a firma Mario Bocola dall’eloquente titolo “BES e DSA, invenzione Miur per assicurare promozione”. Riportiamo in corsivo i passi della lettera originale e, punto per punto, la nostra risposta in qualità di professionisti che si occupano quotidianamente di questa tematica.
Un tempo non esistevano, ma ora i BES (Bisogni Educativi Speciali) e i DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) sono diventati due acronimi importanti nel mondo dell’istruzione, una sorta di passpartour per assicurarsi la promozione, o meglio un “paracadute” per essere ammessi alla classe successiva, o meglio ancora un marchio per la promozione assicurata.
Oggi basta che un alunno con serie difficoltà di lettura, scrittura e comprensione ottiene il BES oppure ha un disturbo specifico dell’Apprendimento che il sei in pagella scatta automaticamente…e viene promosso.
Un tempo esistevano solo i disabili che erano guidati dall’insegnante di sostegno come lo sono anche oggi ma BES e DSA no. Il MIUR che da sempre ha detto che la scuola deve essere inclusiva come poteva comportarsi di fronte ad un alunno con serie difficoltà di scrittura, lettura e comprensione? Si è inventato i BES e i DSA e il gioco è fatto. Infatti, quando a scuola un alunno rischia seriamente la bocciatura, invece di fargli ripetere l’anno (come avveniva un tempo) si preferisce concedergli un BES o un DSA e così può passare alla classe successiva.
Falso. Una diagnosi di DSA non assicura la promozione. A volte capita anche a noi di ricevere verso la fine dell’anno la telefonata: “Abbiamo bisogno di una diagnosi perché vogliono bocciare nostro figlio”. Il compito del professionista è spiegare che un alunno con DSA e BES può essere bocciato se, nonostante l’attivazione del PDP, il suo rendimento non si sia rivelato comunque sufficiente. Diverso è il caso in cui la bocciatura sia dovuta a un PDP redatto ma non osservato. Lì il ricorso è inevitabile e molto spesso (giustamente) favorevole.
Un tempo quasi tutti gli alunni sapevano leggere, scrivere e far di conto, oggi c’è bisogno del BES (stabilito dal Consiglio di Classe) e del DSA (certificato dalla, ASL) molti sono dislessici e disgrafici.
Un tempo tutte queste patologie non esistevano. Si studiava e basta! Chi non raggiungeva gli obiettivi stabiliti nella programmazione ripeteva l’anno. Ora non sia mai. I genitori non appena paventano che per il loro figlio c’è il forte rischio di una bocciatura certa, subito si precipitano ad imbrattare le carte per correre ai ripari con un BES o un DSA e la promozione è certa. Ovviamente in Italia una volta fatta la legge si trova l’inganno.
Falso. I dislessici e i disortografici sono sempre esistiti. Erano gli “asini” della classe, quelli che “potrebbero ma non si impegnano”. Ultimamente stiamo valutando diversi adulti che giungono da noi proprio per togliersi questo dubbio. Si tratta spesso di professionisti che hanno completato gli studi con grande fatica ma hanno trovato il modo di realizzarsi. Molti di loro, nonostante abbiano completato la scuola dell’obbligo e abbiano anche mostrato grande interesse per la lettura e scrittura (alcuni per mestiere leggono e scrivono parecchio ogni giorno), continuano ad avere la lettura lenta e poco corretta tipica dei dislessici o a commettere gli errori tipici dei disortografici. Nonostante tutto (spesso rimproveri e umiliazioni patite nel periodo scolastico) hanno trovato autonomamente le loro strategie compensative e ce l’hanno fatta. Due domande: era necessario? per uno che ce l’ha fatta, quanti hanno gettato la spugna?
È vero che una volta chi non studiava ripeteva l’anno. Dovrebbe essere così anche ora. A non ripetere l’anno, però, dovrebbero essere quelli che studiano ma non riescono a ottenere gli stessi risultati a causa di un disturbo dell’apprendimento o a una difficoltà specifica in qualche area (memoria, attenzione, funzioni esecutive). Le valutazioni tendono a salvaguardare loro, non i fannulloni.
Negli ultimi anni i casi di BES e DSA nella scuola media sono aumentati in modo esponenziale e, quindi, i genitori possono dormire sonni tranquilli perché il loro figlio non corre alcun rischio per la ripetenza. Troppo buonismo uccide la scuola, massacra l’istruzione e genera analfabetismo. Non si può promuovere tutti altrimenti ci si chiede: a cosa serve la scuola a niente? Diventa così un luogo di parcheggio dove tutti possono andare senza che vi sia una distinzione tra alunni bravi e non bravi perché si genera un livellamento verso il basso.
I docenti non devono meravigliarsi poi che anche i ragazzi bravi, studiosi e volenterosi si appiattiscono. Loro pensano: io che studio a fare, tanto anche chi non fa niente viene promosso lo stesso. E questo è un male endemico della scuola italiana, un malato cronico che deve essere seriamente curato. Ma ora ci sono i “paracadute” per cui basta far finta di studiare e si viene promossi.
Falso. Le diagnosi sono aumentate, come è ovvio che sia rispetto a una situazione precedente in cui la condizione era misconosciuta, ma si attestano sulle percentuali corrette legate a questi disturbi. Al contrario, esistono ancora molte zone d’Italia in cui la percentuale è molto più bassa rispetto a quello che ci si aspetterebbe dai dati di incidenza.
Sulla mancanza di responsabilità. Quando valutiamo i ragazzi più grandi spesso concludiamo i nostri incontri rivolgendoci direttamente a loro e dicendo: “Questo non è il punto d’arrivo. Non è il lasciapassare per la promozione. Questo è il documento che ti darà ciò che ti spetta di diritto, ma da qui in poi la responsabilità è tua. Sarai messo nelle condizioni migliori per apprendere, ma l’apprendimento non avviene in maniera passiva. Dovrai impegnarti parecchio e, se gli insegnanti rispetteranno il pdp, non ci saranno più scuse”.
Una buona restituzione non solleva il ragazzo, ma lo responsabilizza. È giusto prendere un brutto voto se, nonostante le personalizzazioni della didattica, il ragazzo non si impegna nello studio.
Per quanto riguarda i ragazzi bravi, è altrettanto importante per gli insegnanti spiegare che il voto misura la competenza e l’impegno e che a volte lo stesso voto può essere raggiunto da persone diverse secondo le proprie capacità. Tuttavia, il voto non è la competenza e l’obiettivo della scuola non è raggiungere la sufficienza per scavallare l’anno. Chi studia per il voto perde un aspetto molto importante della scuola; studiare per paura della bocciatura, memorizzare tutto a pochi giorni dall’interrogazione e dimenticare pochi istanti dopo è un’attitudine che si sconta con gli interessi quando si passa all’università, e magari si esce in pochi anni col massimo dei voti senza aver acquisito una vera competenza.
Stessa cosa per i genitori “che dormono tranquilli”, magari appoggiati dal professionista compiacente che li rassicura sul fatto che il ragazzo non sarà bocciato. Si sconta tutto dopo, appena lasciata l’ovatta delle pareti scolastiche.
Noi da professionisti puntiamo molto, sia in fase di colloquio che di restituzione, sulla responsabilizzazione dei ragazzi e, per fortuna, siamo spesso sostenuti da genitori totalmente diversi da quelli descritti nella lettera.
Potremmo ritenerci fortunati, ma i nostri numeri ci permettono di escludere che si tratti di un caso.
Ogni critica deve portare a una riflessione costruttiva. per cui è giusto chiederci cosa possiamo fare come professionisti per evitare che si presentino le situazioni descritte nella lettera.
- Prendersi del tempo, sia in fase di colloquio iniziale che in fase di restituzione, per spiegare cos’è e cosa non è una diagnosi. In fase di colloquio sarà sicuramente utile spiegare ai genitori gli effetti reali (spesso diversi da quelli auspicati) di una diagnosi. In fase di consegna della diagnosi, è opportuno ragionare insieme sulle strategie migliori per allestire un PDP davvero calibrato sulle capacità del ragazzo. Del discorso “responsabilizzazione” abbiamo già parlato prima, per cui non ci dilungheremo.
- Non consigliare tutto a tutti. Suggerire solo gli strumenti compensativi e dispensativi che possono supportare un’area di difficoltà. L’obiettivo è quello di portare a un miglioramento generale delle abilità, non atrofizzare quelle già esistenti.
- Spingere genitori e insegnanti a rivedere il PDP nel corso dell’anno, eventualmente rimuovendo quegli strumenti che possono rivelarsi obsoleti di fronte alle crescenti abilità dei bambini e dei ragazzi.