Sembrerebbe di sì, almeno stando a una ricerca italiana condotta da Perani e collaboratori[1]. Secondo questi autori, parlare due lingue ritarderebbe l’insorgere della demenza di Alzheimer in media di 5 anni. Ma come è si spiega questo fenomeno?
Per capirlo dobbiamo prima introdurre il concetto di riserva cognitiva.
Chiunque si occupi di neuropsicologia dell’invecchiamento sa che il cervello possiede una certa capacità di far fronte al danno neurocognitivo. Detto in altri termini, di fronte a un uguale danneggiamento del tessuto cerebrale, le persone manifestano diversi livelli di compromissione cognitiva. Questo è noto soprattutto da studi effettuati sulla malattia di Alzheimer, tramite i quali è stato notato che alcune persone mostrano segni clinici di malattia superiori rispetto ad altri individui pur avendo un livello di funzionamento cognitivo più elevato. Ciò deriverebbe proprio dalla riserva cognitiva, cioè dalla capacità del cervello di ottimizzare le risorse rimaste e tollerare maggiormente le alterazioni cerebrali.
Sono state avanzate diverse ipotesi che possano spiegare l’esistenza della riserva cognitiva: i fattori più comunemente associati a questo vantaggio sono la scolarità, il tipo di occupazione svolta, le attività nel tempo libero e, soprattutto, il livello di funzionamento cognitivo durante l’infanzia.
Secondo la ricerca appena citata anche il bilinguismo contribuirebbe ad aumentare la riserva cognitiva e non di poco, dato che sembrerebbe spostare la demenza più avanti nel tempo di diversi anni.
Come hanno fatto gli autori ad affermare ciò?
Perani e colleghi hanno selezionato due gruppi di anziani affetti da demenza di Alzheimer, un gruppo monolingue (italiano) e un gruppo bilingue (italiano e tedesco) e hanno confrontato sia le loro performance cognitive che il grado di compromissione cerebrale tramite una tecnica di visualizzazione del metabolismo cerebrale (tomografia a emissione di positroni – PET).
Dai risultati è emerso che, a parità di demenza, i monolingue erano più giovani di 5 anni rispetto ai bilingue, mentre questi ultimi mostravano un metabolismo cerebrale (nelle aree tipicamente colpite dalla malattia di Alzheimer) ridotto rispetto ai primi e ciò sta ad indicare che, in chi parla più lingue, i deficit cognitivi inizierebbero a manifestarsi più tardi rispetto all’inizio di malattia perché il dover gestire più lingue per parlare porterebbe all’incremento di attività e connettività in alcune aree cerebrali tipicamente implicate nel linguaggio e nelle funzioni esecutive.
E se un discorso analogo valesse anche per i dialetti?
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