La demenza, nelle sue molte forme, comporta un carico significativo su 50 milioni di persone nel mondo che ne sono affette, così come ai loro caregivers.
Un certo livello di declino cognitivo è considerato parte del normale invecchiamento. La demenza, invece, rende questo declino più “ripido”, compromettendo progressivamente la memoria, il pensiero, l’orientamento, la capacità di calcolo e di apprendimento, la comprensione e il giudizio [1].
Una sfida costante è non soltanto quella per trovare nuove e migliori opzioni di trattamento ma anche per scoprire i corretti indicatori che ci consentano di predire quali tipi di deficit cognitivi svilupperà una persona nel corso della vita.
Uno studio condotto da Gustavson e colleghi [2] ha cercato di esaminare l’abilità in specifici test neuropsicologici per predire il deterioramento cognitivo lieve (MCI) in adulti sani. Gli autori si sono focalizzati sulla memoria episodica e sulla fluenza semantica come potenziali predittori, così come sulle interazioni tra queste due variabili.
Un aspetto interessante della loro ricerca è stato la scelta di un particolare gruppo di persone a cui far riferimento: gemelli selezionati fra gli uomini che avevano prestato servizio militare fra il 1965 e il 1975 (età compresa fra i 51 e i 59 anni).
I test neuropsicologici sono stati utilizzati per quantificare la memoria episodica e la fluenza verbale, così come lo stato cognitivo, sia all’inizio dello studio che dopo un periodo di 6 anni. Per partecipare allo studio sono state selezionate soltanto persone con un livello cognitivo nella norma alla prima rilevazione.
Trascorsi i 6 anni, degli 842 partecipanti, 80 hanno sviluppato qualche forma di MCI (circa la metà di tipo amnesico); questi ultimi sembravano differire dai loro pari soltanto per un aspetto: erano più anziani rispetto a quelli rimasti cognitivamente normali.
Quando sono state esaminate le variabili di interesse in questo studio, gli autori hanno scoperto che la progressione dell’MCI veniva predetta da un basso punteggio sia nella fluenza semantica che nella memoria episodica all’inizio dello studio. In particolare, la memoria episodica sembrava predire la progressione in MCI amnesico, sebbene anche la fluenza semantica avesse un ruolo non trascurabile.
Inoltre, la memoria episodica, ma non necessariamente la fluenza semantica, sembrava predire anche l’MCI non-amnesico, suggerendo quindi che possa rappresentare una sorta di campanello d’allarme del declino cognitivo generale piuttosto che soltanto in aree direttamente collegate alla memoria.
Un altro dato interessante è che la fluenza semantica e la memora episodica sembravano correlate ma questo dato, secondo gli autori, potrebbe derivare da aspetti genetici dal momento le performance nei due test variavano in maniera simile nelle coppie appaiate di gemelli.
Gli autori hanno concluso che la memoria episodica e la fluenza semantica dovrebbero essere utilizzate come indicatori di rischio per il declino cognitivo in individui normali. Sebbene l’importanza dei marker biologici per la diagnosi (come i risultati alla PET) non posso essere negati, i dati indicato che i test neuropsicologici si rivelano spesso predittori migliori e più precoci del declino cognitivo e della sua progressione in demenza di Alzheimer.
Gustavson e colleghi ritengono quindi che un approccio ideale dovrebbe probabilmente combinare le informazioni derivanti dai marcatori biologici con quelle provenienti dai test di fluenza e memoria, in modo da predire il declino cognitivo in persone sane.
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