Negli ultimi anni si è assistito a un aumento della ricerca nell’ambito dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), che ha permesso una maggiore, seppur incompleta, comprensione. È forse grazie a questo che in tempi recenti si è arrivati ad avere un sempre maggior numero di diagnosi precoci con una maggiore possibilità di trattare i disturbi. Parallelamente alla loro classificazione e allo studio delle loro possibili cause, si è sviluppato un filone di ricerca volto a creare e validare vari protocolli di trattamento, spesso molto differenti fra loro. È lecito attendersi però che non tutti siano realmente efficaci e, quando lo sono, il loro effetto può comunque variare.
Va premesso che allo stato attuale è difficile trarre conclusioni sui risultati effettivi a cui conducono i trattamenti, in particolare per quanto concerne le differenze fra loro. Uno dei motivi principali è la difficoltà nel confrontare un gruppo sottoposto al trattamento di interesse con un altro sottoposto a trattamento finto (gruppo di controllo) in modo da verificare che l’eventuale miglioramento nelle prestazioni (lettura, scrittura e calcolo) non sia da attribuire a evoluzione spontanea o a effetto placebo. Infatti, per motivi etici si incontrano molti ostacoli a condurre una ricerca in cui un gruppo di individui, simile a quello da trattare con un intervento di potenziamento (e che quindi, per definizione, a sua volta potrebbe necessitare di tale intervento), non benefici di alcun intervento.
Un’altra difficoltà rilevante dipende dalla grande diversità nel modo in cui vengono condotte le ricerche sull’efficacia dei potenziamenti. A cambiare non è soltanto il modo di trattare le difficoltà ma anche il modo di rilevare i dati (test che misurano parametri dissimili fra loro) e la durata del trattamento. Diventa quindi arduo stabilire quanto la differenza di efficacia di un trattamento rispetto a un altro sia da rintracciare nel metodo utilizzato, nel mondo di osservarlo o nel tempo dedicato agli esercizi.
Nonostante tutto, in tempi recenti si è tentato diverse volte di tracciare una sintesi degli interventi di potenziamento proposti più frequentemente e dei loro effetti sugli aspetti trattati, anche se attualmente non ci sono evidenze conclusive sulla superiorità di un trattamento rispetto a un altro (Re et al., 2014).
Ci sono alcuni trattamenti che si sono dimostrati efficaci (anche se tra questi difficilmente si riesce a stabilire una gerarchia di validità).
Un approccio usato e per il quale è stata documentato una certa efficacia è detto “drill and practice”. Si tratta di tecnica per un percorso di recupero automatico di informazioni matematiche, tramite la quale si tenta di aggirare il tipico percorso di recupero dalla memoria a lungo termine , attraverso abbinamenti corretti che si verificano con il conteggio e le strategie di decomposizione (Baroody, 1995; Baroody et al., 1983).
Un altro metodo consiste nell’istruzione alle strategie di conteggio di studenti “tipici” all’inizio dell’apprendimento dell’abilità di combinare numeri. In questo modo i bambini diventano sempre più consapevoli delle modalità e da queste possono far derivare e dipendere efficienti strategie di conteggio, addizione e sottrazione (Fuchs et al., 2010b). Fuchs e collaboratori (2010a) hanno dimostrato l’efficacia delle strategie di conteggio sulle abilità numeriche.
Un’altra tecnica di intervento è pensata per costruire la comprensione della relazione parte-tutto e per insegnare le strategie di decomposizione che normalmente gli studenti scoprono e usano come strategie di conteggio supplementari.
Kucian et al. (2011) hanno messo in evidenza l’efficacia dell’allenamento sulla linea dei numeri (rappresentazione spaziale in cui sono idealmente collocati i numeri nello spazio). Questo allenamento ha consentito alle persone trattate di migliorare la loro capacità di risolvere problemi matematici.
Powell e collaboratori (2009), invece si sono concentrati sulla possibilità di allenare il recupero di fatti aritmetici (problemi matematici che possono essere risolti senza strategie di calcolo, necessitano soltanto del recupero della soluzione dalla memoria a lungo termine – le tabelline, per esempio) documentando un incremento delle prestazioni in bambini con difficoltà matematiche (ma non in bambini con difficoltà matematiche unite a quelle di lettura).
Uno studio di Re e colleghi (2014) ha esaminato l’impatto di un training individualizzato (basato su concetto di numero, automatizzazione nel recupero e nell’utilizzo di fatti aritmetici, calcolo mentale e calcolo scritto) sul profilo di funzionamento nel calcolo in bambini con difficoltà nell’area matematica e in bambini con discalculia evolutiva. Questo tipo di trattamento, basato sullo specifico profilo cognitivo di difficoltà matematiche, ha portato entrambi i gruppi di bambini a un cambiamento significativo nelle abilità di calcolo. Risultati incoraggianti sono stati utilizzati con una simile metodologia da De Candia et al. (2007).
Pur non potendo approfondire, per motivi di spazio, ci preme infine segnalare un ulteriore filone di ricerca che negli ultimi anni si è dimostrato promettente. Analogamente a quanto in parte succede per i trattamenti di tipo neuropsicologico adottati per la dislessia, si stanno studiando gli effetti di trattamenti mirati alle funzioni cognitive che si ritengono implicate nelle difficoltà di calcolo. Numerosi, per esempio, studi scientifici hanno ormai messo in evidenza la relazione che intercorre tra la memoria di lavoro, in particolare quella visuo-spaziale (ma non solo) e le abilità matematiche (St Clair-Thompson, H.L., & Gathercole, 2006; Alloway & Passolunghi, 2011; Passolunghi & Mammarella, 2011; Passolunghi & Mammarella, 2010; Passolununghi et al., 2008; Passolunghi & Pazzaglia, 2004; Passolunghi & Pazzaglia, 2005; Passolunghi & Siegel, 2004; Passolunghi et al., 2009; Holmes et al., 2008). Un’ovvia conseguenza è stata quella di mettere appunto degli allenamenti specifici per le componenti cognitive che sembrano carenti in bambini con disturbi degli apprendimenti (di diverso tipo) e nell’area specifica del calcolo si iniziano ad accumulare evidenze di efficacia di interventi su alcune componenti dell’attenzione e delle funzioni esecutive sulle performance matematiche (Chein & Morrison, 2010; Holmes et al., 2009; Holmes et al., 2010; Karbach & Kray, 2009).
In Italia un tentativo in tal senso è stato fatto da Mogentale e Chiesa (2009) con un trattamento neurpsicologico in cui ragazzi con dislessia potevano avere in commorbidità discalculia e disortografia. La terapia prevedeva il trattamento sublessicale per allenare direttamente la lettura e altri allenamenti che riguardavano altri processi cognitivi più di base come l’attenzione e le funzioni esecutive. Dai risultati è emerso che non soltanto questo trattamento migliorava la lettura ma aveva un effetto positivo anche sui deficit di calcolo e ortografici.