Negli ultimi anni si è assistito a un aumento della ricerca nell’ambito dei disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), che ha permesso una maggiore, seppur incompleta, comprensione. È forse grazie a questo che in tempi recenti si è arrivati ad avere un sempre maggior numero di diagnosi precoci con una maggiore possibilità di trattare i disturbi. Parallelamente alla loro classificazione e allo studio delle loro possibili cause, si è sviluppato un filone di ricerca volto a creare e validare vari protocolli di trattamento, spesso molto differenti fra loro. È lecito attendersi però che non tutti siano realmente efficaci e, quando lo sono, il loro effetto può comunque variare.

Va premesso che allo stato attuale è difficile trarre conclusioni sui risultati effettivi a cui conducono i trattamenti, in particolare per quanto concerne le differenze fra loro. Uno dei motivi principali è la difficoltà nel confrontare un gruppo sottoposto al trattamento di interesse con un altro sottoposto a trattamento finto (gruppo di controllo) in modo da verificare che l’eventuale miglioramento nelle prestazioni (lettura, scrittura e calcolo) non sia da attribuire a evoluzione spontanea o a effetto placebo. Infatti, per motivi etici si incontrano molti ostacoli a condurre una ricerca in cui un gruppo di individui, simile a quello da trattare con un intervento di potenziamento (e che quindi, per definizione, a sua volta potrebbe necessitare di tale intervento), non benefici di alcun intervento.

Un’altra difficoltà rilevante dipende dalla grande diversità nel modo in cui vengono condotte le ricerche sull’efficacia dei potenziamenti. A cambiare non è soltanto il modo di trattare le difficoltà ma anche il modo di rilevare i dati (test che misurano parametri dissimili fra loro) e la durata del trattamento. Diventa quindi arduo stabilire quanto la differenza di efficacia di un trattamento rispetto a un altro sia da rintracciare nel metodo utilizzato, nel mondo di osservarlo o nel tempo dedicato agli esercizi.

Nonostante tutto, in tempi recenti si è tentato diverse volte di tracciare una sintesi degli interventi di potenziamento proposti più frequentemente e dei loro effetti sugli aspetti trattati, anche se attualmente non ci sono evidenze conclusive sulla superiorità di un trattamento rispetto a un altro (Re et al., 2014).

Lo studio sui trattamenti per la disortografia sconta un gap attribuibile a una maggiore focalizzazione sullo studio dei processi di lettura e delle relative difficoltà. Solo in tempi più recenti la ricerca ha iniziato prendere in esame in modo più esteso le abilità sottostanti la lettura (Bigozzi et al., 2007) e, in parte grazie a questo, si iniziano ad avere evidenze (seppur ancora insufficienti) circa l’efficacia di alcuni tipi di trattamento sulla disortografia evolutiva.

Come si potrà immaginare con un rapido sguardo alla bibliografia, la letteratura scientifica è ancora molto povera di contributi in quest’area.

Volendo riassumere, dagli studi disponibili, appare interessante una ricerca (anche se con molti limiti visto l’esiguo numero di soggetti su cui è stata condotta, e l’assenza di gruppo di controllo) condotta da Bigozzi e collaboratori (2007) in cui, nel trattamento proposto ai pazienti non si è lavorato direttamente sulle regole dell’ortografia (codifica superficiale) ma sul potenziamento lessicale (codifica profonda) con l’obiettivo di giungere a una rappresentazione della parola più stabile e accessibile. Nei due ragazzi trattati si è avuta un’evoluzione significativa delle abilità ortografiche.

Wanzek e colleghi (2006), raggruppano gli interventi per potenziare le competenze ortografiche (in questo caso si sono interessati soprattutto sulla capacità di spelling) in tre aree: istruzione assistita dal computer, procedure di studio e pratica sulle parole, trattamento multisensoriale. Riguardo alla prima, gli autori riferiscono effetti positivi e complessivamente l’utilizzo del computer per esercizi di spelling è stato ritenuto un’opzione fattibile grazie alla possibilità di avere istruzioni dirette e personalizzate per studenti con difficoltà di apprendimento. Tutto ciò sembrerebbe inoltre associato a un aumento della motivazione all’apprendimento da parte di tali studenti.

Gli stessi autori parlano anche dell’utilità riscontrata in seguito a procedure sistematiche di pratica e studio sulle parole (per esempio, copiare le parole, coprirle e scriverle, confrontarle) mentre sul training multisensoriale i risultati paiono più incerti (Wanzek, 2006).

Anche uno studio successivo (Ise & Schulte-Korne, 2010) ha documentato un efficacia di un training basato sullo spelling nell’aumentare la conosceza di regole ortografiche, così come un studio di Kast e collaboratori (2011) ha riportato l’utilità di un training computerizzato per migliorare le abilità di spelling.

Infine va segnalato uno studio di Mogentale e Chiesa (2009) in cui i partecipanti, ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento, in seguito a un trattamento neuropsicologico misto, mostravano di migliorare le loro capacità di lettura, nell’ortografia e nel calcolo (le persone sottoposte a trattamento erano dislessiche e parte del campione era anche disortografico e/o discalculico). La particolarità di questo studio è che al trattamento sublessicale (per la lettura) si aggiungeva esercizi di stimolazione di altre funzioni cognitive (come l’attenzione e le funzioni esecutive) che permettevano di trattare, oltre al deficit di lettura, anche altri problemi in commorbidità che spesso si riscontrano in persone con disturbi specifici dell’apprendmento e che probabilmente li causano o li aggravano.

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